È il 14 Agosto 1971: a Palo Alto (California), alcuni studenti universitari vengono prelevati dalle loro case e portati alla Stazione di Polizia in manette. Le accuse sono violazione degli articoli 211, rapina a mano armata, e 459, furto con scasso, del Codice Penale. I vicini di casa, incuriositi, osservano i ragazzi mentre vengono ammanettati e portati via nella macchina della polizia, che si allontana con il lampeggiante acceso. Una volta giunti a destinazione, gli studenti vengono informati dei loro diritti, vengono prese le impronte digitali e viene fornita loro una anonima uniforme, dopodiché la porta della cella si chiude. Ha inizio così il primo giorno del celebre Esperimento carcerario di Stanford.
La vicenda è iniziata con un annuncio pubblicato su un giornale: cercansi studenti universitari maschi per studio sulla vita carceraria. Delle 70 persone presentatesi, i ricercatori ne hanno selezionate 24, a cui è stato assegnato casualmente il ruolo di prigioniero o di guardia. Il leader dello studio è un giovane professore di Psicologia, Philip Zimbardo, interessato a scoprire se la brutalità che si manifesta nelle prigioni statunitensi sia dovuta a fattori disposizionali delle guardie o abbia a che fare con l’ambiente carcerario stesso.
Effetto Lucifero: cattivi si diventa
Il luogo in cui si trovano gli studenti, in realtà, non è che la simulazione di una prigione, una stanza collocata nel seminterrato del dipartimento di Psicologia di Stanford, progettata per rappresentare un potere istituzionale schiacciante. L’esperimento della prigione di Stanford, che doveva durare due intere settimane, viene interrotto prematuramente, dopo solo 6 giorni, a causa di una rapida e inaspettata trasformazione del comportamento dei partecipanti.
I soggetti a cui è stato assegnato il ruolo di guardia, posti in una posizione di potere, iniziano a mettere in atto comportamenti che non avrebbero mai agito nella vita quotidiana, diventando progressivamente più sadici e tirannici. I prigionieri diventano sottomessi e depressi.
A distanza di cinquant’anni, l’Esperimento carcerario di Stanford rimane uno degli studi psicologici più famosi e avvincenti di tutti i tempi: ne hanno tratto ispirazione diversi film, documentari e libri. Repliche dello studio, successivamente oggetto di numerose critiche sul piano etico, oggi non verrebbero consentite; va tuttavia riconosciuto che il suo ideatore era motivato da una sincera preoccupazione per le condizioni carcerarie, il rispetto dell’autorità e la comprensione della malvagità dell’uomo.
Le conseguenze dell’Esperimento carcerario di Stanford
L’esperimento carcerario di Stanford, a prescindere da qualunque controversia, ha fatto emergere una serie di domande scomode e difficili, che mantengono aperto uno dei dibattiti più attuali sulla natura umana:
Secondo gli autori, lo studio avrebbe dimostrato proprio quest’ultima ipotesi. E se sono molte le variabili situazionali in grado di influenzare le dinamiche comportamentali, Zimbardo già allora ne aveva identificate alcune. Più nello specifico, i ricercatori hanno concluso che quando le persone si sentono anonime ed esercitano un potere su altre persone, sottoposte a un processo di deumanizzazione, possono diventare facilmente malvagie.
Esperimento carcerario di Stanford, tra processi di anonimato e deumanizzazione
Le condizioni che hanno portato a questo scenario sono state create ad hoc dagli sperimentatori, comprese le procedure atte a facilitare processi di anonimato e deumanizzazione. Per esempio, per favorire l’anonimato, le guardie indossavano degli occhiali a specchio, efficaci nel nascondere lo sguardo, e una divisa militare che le rendeva molto somiglianti le une alle altre.
Eppure, non si tratta di concetti lontani da noi. Sappiamo oggi che situazioni che permettono alle persone di sentirsi anonime e irriconoscibili agli occhi altrui possono ridurre drasticamente il senso di responsabilità individuale e favorire la messa in atto di comportamenti violenti. Questo è particolarmente vero per persone con tratti predisponenti aggressivi. Suona familiare? A distanza di mezzo secolo dall’esperimento, possiamo osservare che l’apparente anonimato offerto dai social media favorisce il diffondersi di messaggi ostili o aggressivi che hanno lo scopo di causare danno o disagio agli altri.
A propria volta, l’anonimato del luogo dell’esperimento e dei prigionieri ha fatto sì che le guardie cambiassero rapidamente la loro percezione dei prigionieri («Se si trovano qui, devono esserselo meritato»). La deumanizzazione, la visione dell’altro come meno che umano, è considerata un altro fattore fondamentale che favorisce violenza. Tramite questo processo alle vittime sono negate le qualità umane e di conseguenza i diritti morali, consentendo ai perpetratori di eseguire azioni violente senza inibizioni e senza rimorsi. Per esempio, è possibile che i soldati coinvolti in guerra sperimentino una dissonanza cognitiva tra le loro convinzioni morali (l’omicidio è moralmente sbagliato) e le loro azioni, e imparino a risolvere questa dissonanza cambiando le loro convinzioni sulla vittima. Estremizzando, questo meccanismo potrebbe essere alla base anche di fenomeni quali le aggressioni intergruppo, i genocidi o la riduzione in schiavitù.
Come influiscono le dinamiche di potere nell’esercizio della violenza?
Se si considerano gli altri come esseri inferiori, è evidente che l’esercizio del potere diventa molto più tollerabile. E il potere tende a cambiare il rapporto che gli individui hanno con il loro ambiente, spingendo le persone a rispondere più in linea con le richieste della situazione, il che probabilmente spiega come mai i partecipanti abbiano interiorizzato il ruolo di guardia così rapidamente.
L’idea che persone “comuni” possano diventare dei mostri se poste in determinate circostanze suggerisce che nessuno è completamente buono o cattivo; tutti noi abbiamo molte sfaccettature. L’Esperimento della prigione di Stanford è importante tutt’ora perché rappresenta una sorta di ammonimento in merito a ciò che potrebbe accadere qualora sottovalutassimo la rilevanza delle forze ambientali. Ne risulta che è essenziale riconoscere il modo in cui anche persone comuni possono essere indotte o incoraggiate a compiere azioni malvagie, in modo da sviluppare dei meccanismi per combattere tali trasformazioni.
Per citare Zimbardo: sono poche mele marce che rovinano un barile? Questo è quello che vogliamo credere: che non potremmo mai essere una mela marcia. Siamo quelli buoni nella botte. Credere che ci sia una linea impermeabile che separa le persone cattive da quelle buone significa anche correre il rischio di non comprendere le motivazioni e le circostanze che hanno invece contribuito alla messa in atto di comportamenti malvagi. Se vogliamo eliminare la violenza, dobbiamo prima capire che cosa può favorirla.
Bibliografia:
- Markowitz D. M., Slovic P. (2020), «Social, psychological, and demographic characteristics of dehumanization toward
immigrants», Proceedings of the National Academy of Sciences, 117 (17), 9260-9269. - The Stanford Prison Experiment. (2021).
- Zimbardo P. (1995), «The psychology of evil: A situationist perspective on recruiting good people to engage in anti-social acts», Japanese Journal of Social Psychology, 11 (2).