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    La valutazione dell’intelligenza in età evolutiva: una sfida aperta

    Scrivere oggi di “test di intelligenza” – soprattutto per l’età evolutiva – non è semplice;
    non solo l’argomento appare ormai desueto, ma la sua complessità richiede di considerare
    i molteplici cambiamenti avvenuti nel corso degli anni in ambito scientifico, sociale, politico
    e legislativo.

    Perché i test di intelligenza per l’età evolutiva?

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    Alla fine dell’Ottocento, problemi come il ritardo mentale, i disturbi psichici e la delinquenza minorile hanno importanti ricadute sociali. Sociologi, medici e politici si propongono di intervenire sui possibili fattori di rischio. L’alto tasso di mortalità infantile è «fonte di preoccupazione, poiché colpisce, sia pure indirettamente, l’economia: una bassa crescita della popolazione priva lo Stato di futuri soldati e operai» (Baker, 2004,p. 69). L’intelligenza è considerata un tratto ereditario e innato¹.

    Le scoperte scientifiche modificano la comprensione del processo evolutivo e le malattie del bambino diventano entità patologiche specifiche differenti da quelle dell’adulto.

    Negli anni antecedenti alla Prima guerra mondiale, la maggior parte degli psicologi che si occupa di bambini lavora nelle istituzioni per il ritardo mentale e per la delinquenza o in “ambulatori psicologici”, dedicati a specifici disturbi (per esempio, handicap fisici e difficoltà del linguaggio). Si chiede loro di fare la diagnosi differenziale tra patologie che possono avere manifestazioni simili, ma mancano sia un corpus di teorie di riferimento, sia una formazione ad hoc, sia strumenti diagnostici adeguati. Si ritiene che, per ottenere diagnosi appropriate, l’impiego di test possa avere molteplici vantaggi rispetto all’osservazione: i test, infatti, possiedono alcune prerogative comuni agli esperimenti, come il controllo delle procedure, la possibilità di ripetere la misurazione e di sottoporre i risultati a un trattamento quantitativo.

    Oltre al noto lavoro di A. Binet (1859- 1911), la psicodiagnostica in età evolutiva è legata alle ricerche di altri due clinici:

    L. Witmer² (1867-1956) e W. Healy³ (1869- 1963), che hanno creato nuovi reattivi e hanno proposto una metodologia clinica. Fondamentali non solo la raccolta dei dati, ma anche la scelta dei test da somministrare e la lettura dei risultati. Indispensabile quindi avere una formazione specifica, differente da quella dello sperimentatore, e competenze adeguate ad affrontare problemi psicologici.

    I primi decenni del secolo scorso sono quindi contraddistinti:

    1. dalla creazione di molteplici strumenti/test che misurano specifiche abilità;
    2. dalla ricerca di un approccio scientifico (e quindi di un metodo) per la diagnosi psicologica di bambini, adolescenti e adulti;
    3. da un approccio clinico. I dati emersi dalle ricerche di Binet, Witmer e Healy evidenziano che il punteggio al test non è sufficiente per formulare una diagnosi: deve essere integrato con altri dati relativi alla storia familiare, all’ambiente di vita e all’anamnesi clinica. Poiché l’obiettivo è “misurare” quelli che allora erano chiamati “processi” e che oggi denominiamo abilità o funzionamenti, «lo strumento da impiegare è quello che meglio aiuta a comprendere il funzionamento di quello specifico soggetto» (Pyle, 1916, p. 285).

    ¹Solo nei decenni successivi si dibatterà se il livello di intelligenza sia ereditario e innato oppure anche dipendente da fattori ambientali.

    ²Considerato il padre della psicologia clinica, Witmer trasforma il laboratorio universitario di psicologia di McKeen Cattell in una struttura ambulatoriale e formula linee guida per la formazione degli operatori e per la diagnosi. Ritiene che i test abbiano una funzione che non si limita al computo di un punteggio totale; sostiene, inoltre, che sia necessario, oltre alla diagnosi, un metodo clinico che integri osservazione, sperimentazione e intervento pedagogico.

    ³Principalmente interessato ai disturbi della condotta nell’infanzia e nell’adolescenza, Healy si discosta dal paradigma innatista: ritiene, infatti, che un disturbo emotivo sia spesso la matrice del comportamento delinquenziale. Propone un modello diagnostico basato su una teoria multifattoriale del disturbo. Ritiene che per la diagnosi siano dirimenti la storia personale del minore, i dati medici e i risultati ai test, scelti in base all’ipotesi clinica da valutare.

    Le finalità del testing in età evolutiva

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    Nel corso degli anni le finalità dei test e l’interpretazione dei risultati sono oggetto di numerose modificazioni, dettate da fattori sociali, economici, politici, scientifici e clinici. Mentre l’obiettivo dei primi test di intelligenza era quello di pervenire a un punteggio totale facendo riferimento a costrutti cognitivi specifici (per esempio, memoria, astrazione e velocità di elaborazione) considerati predittori del successo/insuccesso a scuola e nella vita, negli anni successivi diventa oggetto di attenzione il funzionamento del brain, cioè delle aree cerebrali implicate nelle performance cognitive. Di conseguenza, cambiano i parametri per la diagnosi del funzionamento cognitivo. All’inizio del secolo scorso, erano oggetto di discussione sia il computo del punteggio totale emerso dal test, sia la sua denominazione; oggi si argomenta se e in quale misura intelligenza fluida, attenzione esecutiva e velocità di elaborazione siano gli effettivi componenti della cosiddetta “intelligenza”.

    I parametri che hanno guidato e orientato l’architettura dei test e la lettura dei dati sono specifici di contesti non direttamente legati al testing:

    • le scoperte della pediatria;
    • le nuove conoscenze in neurologia, che aprono la strada a differenti modalità terapeutiche;
    • la nascita della neuropsicologia in età evolutiva come disciplina a sé stante;
    • la nascita della psicologia scolastica;
    • la promulgazione di leggi a tutela non solo delle minoranze, ma anche delle persone con problemi cognitivi di diversa natura, nello specifico i disturbi del neurosviluppo.

    Il bambino non è un “adulto in miniatura”

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    Già alla fine dell’Ottocento, il bambino non è più considerato come “adulto in miniatura” (Jacobi, 1889), ma come “entità a sé stante” rispetto ai soggetti adulti. Le sue malattie sono oggetto di un differente approccio grazie al lavoro dei “padri fondatori” della pediatria: J. L. Smith (1827-1897), A. Jacobi (1830-1919) e L. E. Holt (1855-1924). Vengono inoltre costituite le prime società scientifiche che si occupano dell’età evolutiva – per esempio, l ’American Pediatric Society (1888) e l’International Pediatric Association (IPA) – e si auspica che il nuovo secolo sia «il secolo del bambino» (Key, 1900/1909).

    All’inizio del Novecento, il problema della persona unfit e delle ricadute che possono ripercuotersi sull’economia è molto sentito. R. Goddard (1882-1945) e A. Binet prima e, successivamente, L. M. Terman (1877-1956) cercano di trovare risposte al problema del ritardo mentale, così come W. L. Healy tenta, insieme a A. F. Bronner (1881-1966), di individuare quelle che potrebbero essere le cause della delinquenza in età evolutiva e Witmer propone un approccio clinico alle difficoltà di apprendimento. Diversi interrogativi non trovano facilmente risposta: quali singole abilità concorrono alla cosiddetta intelligenza? Come è possibile misurarla e quali sono i parametri di valutazione da impiegare in età prescolare e scolare? Riformatori e legislatori considerano improrogabile trovare delle soluzioni che non siano solo di segregazione per i bambini con disabilità intellettiva e/o portatori di handicap fisici e/o che delinquono.

    Con gli anni Venti del secolo scorso, l’attenzione di ricercatori, clinici e legislatori non è più focalizzata solo sul minore in difficoltà, ma anche su quello con sviluppo tipico. Sono infatti diffuse le considerazioni che «nessuno sa cosa sia un bambino normale» (Seashore, 1915, cit. in Smuts, 2006, p. 126) e che si sa molto poco non solo della cosiddetta “intelligenza”, ma anche del funzionamento della mind. Si vuole comprendere il funzionamento cognitivo dei bambini in età prescolare e scolare e non ci si limita a “misurare” l’intelligenza. I lavori di N. Bayley (1899-1994), A. Gesell (1880-1961) e H. Werner (1890-1964) permettono di definire i nuovi parametri: bisogna prendere in considerazione le traiettorie evolutive, per cui non si può circoscrivere l’approccio diagnostico alla sola variabile “intelligenza”.

    Il paradigma predominante è studiare la continuità tra sviluppo tipico e atipico, che diventerà un prerequisito imprescindibile per la Developmental Psychology and Psychopathology (DPP; Cicchetti, Cohen, 2006).

    Il lavoro – non solo di G. S. Hall (1846- 1924), ma soprattutto dei suoi allievi (tra cui L. M. Terman e A. Gesell) – permette di comprendere meglio lo sviluppo sociale, emotivo e cognitivo dei minori.


    ⁴La scelta fino ad ora privilegiata di istituzionalizzare il minore “deviante” è oggetto di numerose critiche.

    Primi lavori relativi allo “sviluppo normale”

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    Tra gli anni Venti e Quaranta, vengono pubblicati i primi lavori sullo sviluppo normale e anormale del bambino (Thorndike, 1921; Watson, Watson, 1928). Cambiano i parametri di riferimento: è smentita l’ipotesi dell’immodificabilità dell’intelligenza (Wellman, 1932a, 1932b, 1940) in quanto si dimostra che l’ambiente può incidere sulla sua evoluzione (Crissey, 1937; Skodak, 1939).

    Negli anni Quaranta, in particolare, Gesell propone la maturational theory of child development e introduce il parametro “asincronia nello sviluppo”, che sarà ripreso dalla Developmental Psychology and Psychopathology (DPP). La comunità scientifica ormai è concorde sul fatto che la “crescita della mente” del bambino sia correlata alla sua maturazione e che lo sviluppo dell’intelligenza rispecchi il funzionamento dei meccanismi neurali (Gesell, Amatruda, 1941).

    Le nuove conoscenze modificano l’architettura dei test di intelligenza per bambini in età prescolare e scolare. Sono pubblicati nuovi strumenti, che cercano di superare i limiti di quelli esistenti: l’Infant Intelligence Scale (Cattell, 1940), la Northwest Infant Intelligence Scale (Gilliland, 1948) e il Full Range Picture Vocabulary Test (Ammons, Ammons, 1948). La Stanford-Binet Tests of Intelligence (Terman, Merrill, 1937) è più volte revisionata, ma la sua architettura viene conservata.

    Diventano oggetto di interesse le prestazioni cognitive di minori che appartengono a diverse culture. R. G. Leiter pubblica la Leiter International Performance Scale (1936, 1948) che si propone di valutare il livello di intelligenza anche di soggetti che appartengono a differenti culture (culture free test).

    Nel 1949 D. Wechsler (1896-1981) pubblica la Wechsler Intelligence Scale for Children (WISC), un’estensione verso il basso della Wechsler Bellevue Intelligence Scale-Second Edition (WB-II; Wechsler, 1946, tr. it. 1956) e nel 1954 R. R. Griffiths pubblica la Griffiths Mental Development Scale basata sull’assunto che l’intelligenza sia un’abilità generale.

    Tutti i test permettono il computo di un punteggio totale denominato “QI”, che è considerato un indicatore del livello di intelligenza del bambino/adolescente.


    ⁵Subito dopo la pubblicazione della Scala di Binet e Simon (1905a, 1905b, 1905c) e della sua versione americana ad opera di Terman (1916), alcuni autori (per esempio, Burt [1921]; Yerkes, Foster [1923] e
    Kuhlmann [1914]) estendono agli anni prescolari prima il test di A. Binet e, poi, quello di L. M. Terman.
    In questi strumenti sono riscontrati alcuni limiti in quanto le procedure di standardizzazione sono
    mal definite e mancano i dati sull’affidabilità e sulla validità (Stott et al., 1965).

    ⁶Tra il 1930 e il 1936 R. G. Leiter lavora presso la Psychological Clinic dell’Università delle Hawaii per lo studio delle differenze tra soggetti che appartengono a culture diverse.

    La fine del secolo scorso

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    Tra le due guerre mondiali le conoscenze a disposizione dei clinici aumentano in modo significativo. Nel periodo tra gli anni Quaranta e Ottanta l’elevato numero di pazienti con gravi danni cerebrali, conseguenza della Seconda guerra mondiale, diventa oggetto di studio. Gli psicologi si avvalgono di diverse batterie di test neuropsicologici sia per valutare questi pazienti, sia per determinare l’origine di eventuali disfunzioni cerebrali. Fondamentali i contributi di W. Halstead (1908-1968), R. M. Reitan (1922-2014), A. R. Lurija (1902-1977) e E. Kaplan (1924-2009).

    Alla fine degli anni Cinquanta, nel contesto della valutazione in età evolutiva, sono presenti nuovi orientamenti, alcuni dei quali sono la diretta conseguenza delle recenti conoscenze sul funzionamento del brain nei soggetti adulti. Sono diffusi alcuni interrogativi che, sia pure in misura indiretta, incidono sulle variazioni da apportare agli strumenti già esistenti (per esempio, le Scale Stanford- Binet) e che modificano i parametri per la creazione dei nuovi reattivi. I clinici che si occupano di età evolutiva si domandano se sia effettivamente adeguata l’estensione verso il basso dei modelli diagnostici impiegati per gli adulti, così come i neuropsicologi si interrogano sulla validità di batterie di test neuropsicologici, dato che si hanno a disposizione, come alternativa ai test, metodi non invasivi, quali CAT, MRI e PET (Rourke, 1982). Si evidenziano numerose criticità per cui diventa fondamentale prestare attenzione alle interazioni tra fattori biologici, cognitivi, sociali e developmental, nonché considerare la specificità delle diverse fasi dell’arco di vita.

    Si concorda sull’esistenza di importanti parallelismi tra i cambiamenti nel brain e le maggiori competenze cognitive e socio-emotive (Luciana, 2013).

    I cambiamenti legislativi

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    I cambiamenti legislativi degli ultimi settant’anni in tema di disabilità e di esigenze educative speciali sono un indicatore delle modificazioni sociali e politiche avvenute nell’arco dei decenni che, in qualche modo, hanno influenzato sia la creazione sia l’impiego dei cosiddetti “test di intelligenza”.

    Nelle figure 1 e 2 sono riportati alcuni dei provvedimenti legislativi approvati negli Stati Uniti e in Italia. Abbiamo scelto di proporre anche quanto avvenuto nel contesto statunitense perché in quell’ambito sono stati costruiti i test successivamente adattati per la popolazione italiana.

    Verso una diversa concezione dell’intelligenza

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    La linea evolutiva del funzionamento cognitivo si interseca con fattori genetici ed epigenetici. La descrizione della psicopatologia è, a sua volta, oggetto di continue modificazioni. Sufficiente ricordare i cambiamenti avvenuti negli ultimi 15 anni nei sistemi di classificazione per l’età evolutiva (per esempio, il DC: 0-5 ᵀᴹ) e la diffusione della Developmental Psychology and Psychopathology (DPP; Beauchaine et al., 2018; Hinshaw, 2017) che aiutano a rilevare in quale modo le vulnerabilità biologiche e psicologiche possono interagire nel corso della vita con i fattori ambientali. Sono oggetto di attenzione soprattutto i processi/ funzionamenti psicopatologici trasversali alle diverse aree considerate e l’interazione dinamica delle differenti variabili nell’arco di vita (Cicchetti, 2008). L’obiettivo è quello di integrare i criteri descrittivi dei disturbi (per esempio, disabilità intellettiva, ADHD, disturbi dell’apprendimento e dello spettro dell’autismo) con le recenti scoperte in ambito neuropsicologico, che permettono di cogliere il funzionamento e l’interazione non solo tra aree cerebrali, ma anche tra diversi sistemi implicati nel funzionamento cognitivo e in quello emotivo.

    L’intelligenza è considerata un costrutto multidimensionale: acquistano un’importanza sempre maggiore non solo il modello di intelligenza di R. B. Cattell, J. L. Horn e J. B. Carroll (CHC; McGrew, 1997), ma anche quelli di R. E. Jung e R. J. Haier (P-FIT; 2007) e di K. Kovacs e A. R. A. Conway (POT; 2016).

    Negli stessi anni si modificano anche i modelli per l’analisi dei dati: la Psychometric Network Analysis (PNA), che permette di evidenziare “nodi” di correlazioni in una rete di informazioni relativa a un dominio cognitivo, si affianca all’analisi fattoriale.

    In seguito all’evoluzione di modelli e teorie non solo cambiano i criteri per il computo del “livello di intelligenza”, ma varia anche la sua denominazione:

    • si passa dal “QI” alla “Scala totale”;
    • si argomenta se e in quale misura il punteggio totale di un test di intelligenza possa essere ricondotto al fattore g, che è «probabilmente il costrutto più importante in tutta la psicologia, soprattutto per la sua onnipresenza in tutti i test di abilità mentale e per l’ampia validità predittiva per un gran numero di variabili socialmente significative» (Jensen, 2002, p. 39);
    • si valuta se e in quale misura g corrisponda al positive manifold di cui parlavano C. E. Spearman (1904, 1927) e A. R. Jensen (1998), in quanto il fattore g sembra essere una descrizione statistica del positive manifold e non una sua spiegazione;
    • si discute su quale possa essere la modalità di analisi dei dati più adatta per comprendere il funzionamento cognitivo della persona.

    ⁷Le misure delle capacità cognitive sono correlate positivamente l’una con l’altra: il fenomeno è denominato “positive manifold” (Spearman, 1904, 1927). Le persone che ottengono bassi risultati in un test di abilità cognitive tendono a ottenere risultati inferiori alla media anche in altri test di intelligenza (Carroll, 1993; Jensen, 1998).

    Dove siamo andati

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    Nel 1975, D. Wechsler – ormai quasi al termine della sua vita – pubblica un articolo sull’American Psychologist, nel quale riprende alcuni punti critici relativi al dibattito sull’intelligenza, che non è, come molti sostengono, una «qualità della mente […] ma è un aspetto del comportamento, che ha a che fare […] con l’appropriatezza, l’efficacia/efficienza e l’utilità di quello che gli esseri umani fanno o intendono fare» (p. 135). L’intelligenza non è quindi un singolo tratto, ma un’entità multi-sfaccettata, che include diverse e numerose componenti. Secondo D. Wechsler, è fondamentale avere presente che l’intelligenza, nonostante «sia fondata su diversi atti cognitivi, non è un tipo di capacità o di facoltà cognitiva nella vecchia accezione del termine e di certo non nell’accezione in cui definiamo il ragionamento, la memoria, ecc.» (p. 135). Da questa affermazione ne deriva un’altra molto rilevante: nonostante il comportamento intelligente «si possa alle volte basare sulla capacità di ragionare, di apprendere, di risolvere i problemi, altre volte – e questo avviene di frequente – il comportamento implica […] capacità più di natura emotiva, affettiva o tratti di personalità» (p. 136). Sono pertanto inclusi tratti come la persistenza e la consapevolezza dell’obiettivo che non rientrano specificatamente tra quelli abitualmente impiegati per descrivere l’abilità intellettiva e che sono classificati come fattori non intellettivi dell’intelligenza.

    Sono quasi trascorsi 50 anni da quando D. Wechsler ha scritto queste righe e, a nostro avviso, sono antesignane di quello che potrebbe essere il nuovo approccio all’intelligenza. È infatti fondamentale considerare l’interazione tra fattori diversi – per esempio, intelligenza ed emozione/ affetto – e avere a disposizione modelli che facilitino la lettura dell’interazione tra i due funzionamenti.

    Cattell, Horn, Carroll Theory of Intelligence (CHC): cosa è successo negli ultimi 20 anni?

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    Alla fine del secolo scorso, K. S. McGrew propone la Cattel-Horn-Carroll Theory of Intelligence (CHC) ossia l’integrazione tra i modelli di intelligenza di R. B. Cattell (1905-1998), J. L. Horn (1928-2006) e J. B. Carroll (1916-2003). La nuova teoria è una tassonomia empirica delle abilità cognitive ed è la risposta a una specifica esigenza clinica: evitare interpretazioni arbitrarie dei dati emersi dai test (McGrew, 1997).

    La diffusione della CHC porta a significativi cambiamenti sia nell’architettura sia nella lettura dei risultati dei test già esistenti e di quelli successivamente realizzati.

    La prima versione della CHC è oggetto di successive revisioni (McGrew et al., 1998, 2000).

    Nel 2012 è pubblicata la seconda versione della teoria (CHC v2.0; Schneider, McGrew, 2012), che include due componenti: 1) una tassonomia di abilità cognitive di derivazione fattoriale; 2) un insieme di spiegazioni teoriche sulle differenze individuali nelle capacità cognitive, che si basa su ricerche di natura non fattoriale. Sei anni dopo è pubblicata una nuova revisione (Schneider, McGrew, 2018) in cui sono incluse nuove abilità, tra cui diversi domini specifici delle abilità sensoriali e un fattore di Abilità psicomotoria (Gp). Sono descritti tre fattori relativi alla memoria: Capacità di memoria di lavoro (Gwm), Efficienza di apprendimento (Gl) e Fluidità di recupero (Gr) e diverse abilità legate alla velocità [per esempio, Tempo di reazione/decisione (Gt), Velocità di elaborazione (Gs) e Velocità psicomotoria (Gps)].

    Nel 2023, McGrew et al. pubblicano un’ulteriore revisione basata sulle ricerche di ultima generazione.

    L’eredita di Lurija: il modello PASS

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    Negli anni Settanta, J. P. Das e J. A. Naglieri riprendono la teoria di A. R. Lurija (1973) e propongono la teoria PASS (acronimo di Pianificazione – Attenzione – Simultaneità – Successione) secondo cui la risposta cognitiva del soggetto è la risultante dell’interazione tra i processi di attenzione, di elaborazione simultanea e successiva delle informazioni e di pianificazione.

    I processi della teoria PASS dipendono dal funzionamento delle tre unità funzionali cerebrali descritte da A. R. Lurija:

    • la Pianificazione è associata alle aree motorie, premotorie e prefrontali che programmano, regolano e dirigono l’attività mentale;
    • l’Attenzione dipende dalla formazione reticolare e dalle strutture sottocorticali, che regolano i cicli biologici dell’individuo, il tono del comportamento e le emozioni. Ha la funzione di mettere a fuoco selettivamente un certo stimolo e contemporaneamente di inibire le risposte antagoniste;
    • Simultaneità e Successione sono legate alle aree temporali, occipitali e parietali coinvolte nell’analisi e nella memorizzazione delle informazioni; integrano gli stimoli presentati separatamente in un insieme o in un gruppo (Simultaneità), oppure in uno specifico ordine seriale (Successione).

    Unità funzionali e processi corrispondenti operano in modalità interconnessa: l’informazione è elaborata dall’intero sistema cognitivo, anche se in condizioni particolari un processo può assumere una maggiore rilevanza (Taddei, Di Pierro, 2015). L’elaborazione delle informazioni in entrata e in uscita è orientata anche dalle conoscenze già acquisite dalla persona e dal suo funzionamento emotivo.

    In base alla teoria PASS, sono stati realizzati alcuni test ad oggi disponibili per i clinici italiani: Cognitive Assessment System (CAS; Naglieri et al., 1997, ad. it. 2005), Cognitive Assessment System-Second Edition (CAS2; Naglieri et al., 2014, ad. it. 2023), Kaufman Assessment Battery for Children-Second Edition (KABC-II; Kaufman et al., 2004, ad. it. 2010/2011) e NEPSY-II (Korkman et al., 2007, ad. it. 2011).

    Valutare il processo: il Boston Hypothesis Testing Approach (BHTA)

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    Tra gli anni Sessanta e Settanta, un gruppo di clinici e di ricercatori di Boston indaga i cambiamenti nei processi cognitivi avvalendosi di batterie flessibili di test. Questo approccio, inizialmente denominato Boston Process Approach (BPA), oggi è denominato Boston Hypothesis Testing Approach (BHTA; Ashendorf et al., 2013).

    Il principio su cui si basa il BHTA è che il modo in cui una persona risponde a un item di un subtest è importante quanto il punteggio del subtest stesso. Diventano pertanto oggetto di valutazione, per esempio, la qualità degli errori, il tempo di latenza e le strategie impiegate.

    Molti approcci “orientati al processo” proposti negli anni Settanta oggi sono parte integrante di alcuni test per l’età evolutiva e portano al computo di punteggi specifici come, per esempio, i punteggi di processo inclusi nella WISC-IV e nella WISC-V. Negli Stati Uniti sono stati inoltre pubblicati alcuni test esclusivamente dedicati alla valutazione dei processi di risposta: la Wechsler Intelligence Scale-Third Edition as a Process Instrument (WISC-III PI; Wechsler et al., 1999), la Wechsler Intelligence Scale-Fourth Edition Integrated (WISC-IV I; Wechsler et al., 2004) e la Wechsler Intelligence Scale for Children-Fifth Edition Integrated (WISC-V I; Wechsler et al., 2015).

    Nuovi modelli di intelligenza

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    Negli ultimi decenni le scoperte legate al funzionamento cognitivo, rese possibili dal miglioramento delle tecniche di neuroimaging, e le conoscenze sempre più approfondite sullo sviluppo neuropsicologico infantile hanno superato definitivamente i modelli localizzazionisti del funzionamento cerebrale in favore della concettualizzazione delle reti neurali e hanno permesso la teorizzazione di nuovi modelli di intelligenza.

    Gli studi di R. E. Jung e R. J. Haier (2007) e di I. Chavarría-Siles et al. (2014) hanno identificato la corteccia pre-frontale dorsolaterale, il lobulo parietale inferiore e superiore, il giro del cingolo anteriore e le regioni interne dei lobi temporali e occipitali quali componenti di un’ampia rete neurale responsabile del funzionamento cognitivo di livello superiore. Sulla base di questi studi è stata elaborata la Parieto-Frontal Integration Theory (P-FIT) che attribuisce un’importanza cruciale al ragionamento fluido, alla memoria di lavoro e alle funzioni esecutive (Duggan, Garcia-Barrera, 2015).

    Nel 2016, Kovacs e Conway cercano di spiegare il fenomeno del positive manifold senza prevedere un fattore di intelligenza generale (fattore g). La Process Overlap Theory (POT), da loro proposta, ipotizza che nello svolgimento dei compiti cognitivi siano richiesti più spesso i processi esecutivi generali (tra i quali ha grande rilevanza la memoria di lavoro) rispetto a quelli legati al dominio specifico del compito. Il fattore g è quindi considerato una proprietà emergente dal confronto tra test cognitivi più che un tratto latente causale.

    Anche la teoria CHC è rivisitata in base alle nuove linee di ricerca in ambito neuropsicologico e alla Psychometric Network Analysis (PNA; McGrew et al., 2023). Secondo la PNA ogni variabile psicologica (per esempio, l’abilità cognitiva ipoteticamente misurata da uno strumento) può essere rappresentata come un “nodo” nel network di relazioni. La PNA permette di evidenziare le relazioni tra nodi e di stabilire la forza di queste relazioni. I risultati dello studio confermano non solo la struttura delle abilità ampie della teoria CHC, ma ipotizzano un ruolo più centrale dei processi attentivi e della memoria di lavoro (in linea con i modelli neuropsicologici di ultima generazione).

    Dove stiamo andando?

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    Come scrive Sternberg (2020, p. 43), «anche i test hanno fatto, per alcuni aspetti, molta strada e, per altri, quasi nulla. I test oggi sono molto diversi da quelli originali di Galton, ma si differenziano poco da quelli di Binet. Certamente il loro aspetto esteriore è cambiato, mentre i tipi di item sono mutati poco.

    Può darsi che Binet abbia semplicemente trovato il modo migliore per misurare l’intelligenza. O forse i costruttori di test si sono arroccati e semplicemente non sono riusciti ad andare oltre il punto in cui A. Binet li ha condotti tanto tempo fa. Solo il futuro potrà dirlo». Inevitabile quindi chiedersi “dove stiamo andando”.

    Oggi abbiamo a disposizione i modelli psicometrici, che sono stati dominanti nel panorama della ricerca sull’intelligenza, e i modelli cognitivi, che tentano di catturare i processi cognitivi coinvolti, ma non sempre riescono a spiegare le differenze nelle prestazioni individuali. Le due tipologie di modelli si propongono obiettivi differenti, ma è indispensabile auspicare di arrivare – quanto prima – a una prospettiva più unitaria, che permetta sia di tenere conto delle differenze individuali sia, al tempo stesso, di proporre un modello di processo cognitivo (Conway, Kovacs, 2015).

    Bibliografia:

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    • Ashendorf L., Swenson R., Libon D. J. (2013) (eds.), The Boston Process Approach to neuropsychological assessment, Oxford University Press, New York, NY.
    • Baker J. P. (2004), «Technology in the nursery: Incubators, ventilators, and the rescure of premature infants». In A. M. Stern, H. Markel (eds.), Formative years. Children’s health in the United States 1880-2000, The University of Michigan Press, Ann Arbor, MI, pp. 66-88.
    • Beauchaine T. P., Constantino J. N., Hayden E. P. (2018), «Psychiatry and developmental psychopathology: Unifying themes and future directions», Comprehensive Psychiatry, 87, 143-152.
    • Binet A., Simon T. (1905a), «Sur la nécessité d’établir un diagnostic scientifique des états inférieurs de l’intelligence», L’Année Psichologique, 11 (1), 163-190.
    • Binet A., Simon T. (1905b), «Méthodes nouvelles pour le diagnostique du niveau intellectuel des anormaux», L’Année Psichologique, 11 (1), 191-244.
    • Binet A., Simon T. (1905c), «Application des méthodes nouvelles au diagnostic du niveau intellectuel chez des enfants normaux et anormaux d’hospice et d’école primarie», L’Année Psichologique, 11 (1), 245-336.
    • Burt C. (1921), Mental and scholastic tests, County Council Print, London, UK.
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